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Migliori studi 2023/ Elisabetta Busuito (B-HSE Società tra Avvocati): “PNRR e Riforma Cartabia per efficientare e diminuire tempi giustizia”

Elisabetta Busuito

Per la serie “Migliori studi legali 2023”, Diritto & Affari intervista l’avv. Elisabetta Busuito, partner e responsabile del dipartimento di Diritto Penale di B-HSE Società tra Avvocati. L’avvocato Busuito difende da quasi trent’anni aziende nazionali ed estere, amministratori ed imprenditori nell’ambito di procedimenti penali afferenti a reati societari, tributari e fallimentari, contro la pubblica amministrazione, contro l’amministrazione della giustizia, contro la fede pubblica e contro il patrimonio, nonché per reati contro l’incolumità pubblica e la persona. Inoltre, garantisce piena assistenza alla propria clientela sia in sede processuale, sia in ambito consulenziale e 231, rivestendo anche la qualità di membro di alcuni Organismi di Vigilanza.

B-HSE è una Società tra Avvocati indipendente fondata nel 2020 da professori universitari e avvocati uniti da una stessa visione della professione: altissima specializzazione, competenza e qualità del lavoro, comprensione e conoscenza del business dei Clienti, flessibilità, crescita e valorizzazione dei talenti.

 

1) Quale dovrebbe essere l’impatto del PNRR sulla giustizia penale?

L’auspicato impatto del PNRR sulla giustizia penale è reso manifesto, in modo assai significativo, dalla Riforma Cartabia, che si è prefissata come obiettivo cardine quello di ridurre il tempo di durata del giudizio penale (in particolare, nella misura del 25% entro il 2026) e di abbattere l’arretrato giurisdizionale; dal raggiungimento di questi obiettivi dipende, infatti, l’erogazione dei fondi europei connessi al PNRR. In poche parole: l’obiettivo che l’intervento riformatore ha inteso perseguire, per essere compliant agli impegni assunti in sede sovranazionale, è efficientare e diminuire i tempi della giustizia, anche in un’ottica di deflazione processuale. Proprio in tale solco si è mossa la Riforma che, giusto per citare alcuni degli interventi più rilevanti, ha ampliato le maglie di accesso ai riti alternativi (il giudizio abbreviato, il patteggiamento e la sospensione del procedimento con messa alla prova) nell’agognata prospettiva di riservare il dibattimento soltanto ai processi di particolare complessità; ha previsto che le notifiche all’imputato non detenuto, successive alla prima e diverse da quella con cui è stato citato a giudizio, siano di norma eseguite mediante consegna al difensore anche attraverso P.E.C., così da evitare dispendio di tempo; ha rivoluzionato la disciplina sul processo in assenza in modo da contrastare l’antieconomicità derivante dal giudicare i c.d. “imputati fantasma”; da ultimo, ha introdotto dei filtri all’accesso ai gradi di giudizio successivo al primo (appello e giudizio di cassazione).

I tempi sono ancora troppo prematuri per stilare un primo bilancio sugli effetti applicativi della Riforma, considerato che la stessa è entrata in vigore il 30 dicembre 2022. In una prospettiva d’insieme, va comunque accolta con favore, almeno come petizione di principio, la ratio ispiratrice della novella, e ciò nella consapevolezza che la ragionevole durata del processo, oltre ad essere principio costituzionalmente tutelato, costituisce indice sintomatico della qualità della giustizia di uno Stato democratico, la cui frustrazione, prendendo in prestito le parole della Corte Costituzionale, pregiudica “la stessa effettività – per gli imputati e i condannati, per le vittime e per l’intera collettività – di tutte le restanti garanzie del “giusto processo” e del diritto di difesa”.

Ciononostante, ritengo che alcuni istituti introdotti dalla Riforma, animati da una logica irragionevolmente deflattiva, pongano delle serie criticità, pregiudizievoli per l’effettività delle garanzie difensive, rendendo così concreto il rischio che l’ambizione di una giustizia efficiente diventi una giustizia negata. Il riferimento è, in particolare, alle inedite disposizioni che prevedono che gli atti di impugnazione debbano sempre contenere, a pena di inammissibilità, l’elezione di domicilio delle parti private (anche qualora sia già presente in atti una precedente elezione) e, in caso di imputato giudicato in assenza, uno specifico mandato a impugnare, ovverosia: oneri del tutto formalistici, collidenti con il pieno esercizio del diritto di difesa e che non rivestono una particolare attitudine ad efficientare il giudizio d’impugnazione.

 

2) Quali sono i primi effetti concreti della riforma Cartabia? E in particolare come influisce sulla strategia difensiva il criterio della “ragionevole previsione di condanna”?

Sebbene sia trascorso troppo poco tempo dall’entrata in vigore della parte più cospicua dell’ultima riforma del processo penale, sì da non essere immaginabile un bilancio attendibile degli effetti concreti delle modifiche apportate, l’esperienza di questi ultimi mesi mi consente qualche riflessione, pur parziale, circa un particolare segmento del rito, ove ho potuto apprezzare l’efficacia deflattiva della riforma, scevra da quelle controindicazioni in punto di compressione delle garanzie difensive, di cui ho detto.

Il riferimento è alla nota introduzione del parametro della “ragionevole previsione di condanna” quale regola di giudizio (alternativamente) sottesa alla pronuncia della sentenza di non luogo a procedere in esito alla udienza preliminare e, ancor prima, al provvedimento di archiviazione adottato al termine delle indagini preliminari.

La formula, infatti, che ha sostituito quella della “inidoneità a sostenere l’accusa in giudizio” previgente (alla stregua della quale quanto occorreva verificare ai fini della adozione dei provvedimenti de quo era la sostenibilità dell’accusa in giudizio e, con essa, l’effettiva, potenziale, utilità del dibattimento in ordine alla regiudicanda), innalzando lo standard richiesto per la prosecuzione del procedimento, dovrebbe, in astratto, consentire di far arrivare a processo solo fascicoli caratterizzati da un compendio di indagine che abbia resistito ad una prognosi duplice, di merito e processuale.

Quella di merito deve spingersi fino a ritenere che il compendio investigativo raccolto sia ex se tale da sostenere l’accertamento “oltre ogni ragionevole dubbio” del fatto contestato, sicché la “ragionevole previsione di condanna” sembra dover includere necessariamente il vaglio positivo della colpevolezza.

Quella processuale ha ad oggetto, invece, ragioni ostative ad una futura pronuncia di condanna anche quando gli “elementi acquisiti” sosterrebbero adeguatamente un accertamento della colpevolezza allo stato degli atti (ad es. l’imminenza della prescrizione).

Va da sé che, alla luce di questa bipartizione ed al netto dei pur comprensibili timori sollevati dai Colleghi circa il possibile tradimento della presunzione di non colpevolezza ogniqualvolta si disponga il giudizio ritenendo esistenti tutti i presupposti per la condanna, salvo lasciare al dibattimento il compito di escludere il dubbio sulla responsabilità dell’imputato, la apertura alla prognosi di merito in chiave anzitempo liberatoria è tale da comportare una più marcata anticipazione della difesa alle fasi antecedenti al giudizio, con la mira di ottenere una fuoriuscita dal processo quanto più tempestiva possibile. Nella pratica, sono ben poche le pronunce di non luogo a procedere che hanno fatto ricorso a tale formula operando una prognosi di merito (ne ricordo una in tema di atti persecutori pronunciata dal GUP di Roma, che ha escluso la configurabilità giuridica del reato contestato già in udienza preliminare, facendo ricorso alla nuova regola di giudizio, stante il carattere bagatellare delle condotte e della inesistenza dell’evento tipico del reato). Più frequente il ricorso alla prognosi, per dir così, processuale – specie sul versante archiviatorio – ove il mancato raggiungimento della soglia della ragionevole previsione di condanna è stato correlato alla imminenza della prescrizione dei reati e della più che verosimile incapacità, considerato il carico dell’Ufficio giudiziario in questione, di pervenire ad un accertamento di merito prima del maturare di quel termine.

 

3) Fatte salve le giuste esigenze di maggiore efficienza e rapidità del procedimento, esiste un rischio di snaturamento del processo penale a causa della digitalizzazione e del crescente ricorso all’intelligenza artificiale?

Va operata una netta distinzione tra digitalizzazione del procedimento penale e impiego dell’intelligenza artificiale (cd. IA) a servizio della giustizia, trattandosi di due fenomeni profondamente diversi da un punto di vista ontologico e storico-normativo. Il primo costituisce una delle principali linee direttrici su cui si è innestata la Riforma Cartabia, che ha inteso conferire alla dematerializzazione dei fascicoli una veste sistematica e ordinamentale, anche sulla base dell’esperienza maturata durante la pandemia che ha visto l’esordio del PDP (i.e. il portale appositamente dedicato al deposito di alcuni atti da parte dei difensori), e il più massivo uso della P.E.C. nelle comunicazioni verso gli uffici giudiziari.

In sostanza, l’obiettivo avuto di mira dalla Riforma punta a elevare a regola generale quella per cui l’atto penale (latamente inteso) debba essere ab origine formato e conservato in modalità digitale, prevedendo un regime di obbligatorietà del ricorso alle modalità telematiche per il deposito di atti e di ogni altro documento relativo al procedimento; nello stesso senso si pone la previsione generale secondo cui notificazioni e comunicazioni vanno effettuate di norma in via telematica.

Il percorso, però, è ancora in salita e il suo traguardo richiede giocoforza, da un lato, una vera e propria rivoluzione culturale che coinvolga tanto l’avvocatura quanto gli uffici giudiziari – che non può prescindere da una leale e proficua sinergia tra i due attori, soprattutto in questa prima fase in cui le criticità operativo-logistiche che si riscontrano quotidianamente sembrano offuscare l’ambizioso risultato prefigurato dalla Riforma – e, dall’altro, una reale informatizzazione di quegli stessi uffici, attraverso l’implementazione di strumenti che permettano, davvero, la digitalizzazione del fascicolo (che non può ridursi alla mera dematerializzazione e agli oneri incombenti sui difensori) e l’efficientamento dei servizi di cancelleria: si pensi, ad esempio, alla possibilità per l’avvocato di consultare da remoto l’incarto processuale o le risultanze delle indagini preliminari o a quella di ascoltare le intercettazioni, che allo stato pare un miraggio. Di base sono, dunque, favorevole alla digitalizzazione del procedimento e confidente che, superate le asperità della prima ora, con un concreto investimento sull’informatizzazione delle cancellerie, la stessa potrà avere conseguenze positive su tempi e modalità del lavoro della macchina giustizia. Per assicurare, però, un volto maggiormente garantista al sistema congegnato dalla Riforma, sarebbe bene regolare in modo più accurato un binario parallelo che legittimi a pieno il deposito “cartaceo” in caso di disfunzionamento del portale telematico o in altre situazioni meritevoli d’attenzione, così da evitare il concreto rischio di menomazione del diritto di difesa.

Discorso a parte va fatto per l’IA, ovvero l’uso di algoritmi nell’attività giurisdizionale e, in particolare, in quella di sentencing. Si tratta di una materia ancora “aliena” per il nostro ordinamento e le esperienze d’oltreoceano, per quanto emblematiche, non mi paiono del tutto incoraggianti. Credo che il processo penale debba essere sempre più permeabile agli influssi del progresso tecnologico e alle sue opportunità, ma i connotati essenziali del dibattimento – il luogo fisico, prima ancora che giuridico, ove si esercitano i diritti difensivi e si ricostruiscono fatti umani, all’ombra dei supremi principi dell’oralità e del diritto alla formazione della prova nel contraddittorio delle parti – non possono consentire di sostituire l’uomo con una macchina, delegando ad essa il compito di decidere sulla libertà personale di un individuo.

 

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