Scrivi per cercare

civile Riflessioni Suits

Il danno nell’azione individuale di responsabilità. I più recenti indirizzi della giurisprudenza di merito e legittimità. L’analisi dell’avv. Francesco Rizzo

Il testo che segue è stato pubblicato sulla rivista giuridica “Itinerari della Giurisprudenza”

a cura di Francesco Rizzo

L’autore, attraverso una ricognizione della più recente giurisprudenza di merito e legittimità, affronta alcune questioni problematiche relative alla natura dell’azione di responsabilità, ai soggetti responsabili, al riparto dell’onere della prova e agli aspetti processuali.

Premessa

La disciplina della responsabilità civile degli amministratori di società di capitali è stata recentemente incisa significativamente dal D.Lgs. n. 14/2019 (pubblicato in G.U., 14 febbraio 2019, n. 38) che contiene il Codice della crisi e dell’insolvenza (CCII).

Il Codice entrerà in vigore nel suo complesso il 1° settembre 2021 (art. 389 CCII, modif. dall’art. 5, comma 1, D.L. n. 23/2020) a seguito dell’emanazione del Decreto legge c.d. Liquidità conseguenza dell’emergenza epidemiologica dovuta al Covid-19 che ne ha posticipato l’entrata in vigore, originariamente prevista per il 15 agosto 2020.

La portata di tale riforma va ben oltre i confini e il contesto della crisi di impresa, proiettando nuovi obblighi in capo agli amministratori e ampliandone il perimetro della responsabilità.

Si pensi all’art. 2086 c.c. che contiene una vera e propria clausola generale che impone all’imprenditore di istituire un adeguato assetto organizzativo ai fini della tempestiva rilevazione dello stato di crisi e della conseguente assunzione delle idonee iniziative.

Si introduce, infatti, un dovere di corretta gestione in relazione ai modelli di organizzazione collettiva dell’attività di impresa.

Un dovere di adeguatezza degli assetti organizzativi che, come tale, non può essere sottratto all’area della responsabilità specificando il dovere di corretta gestione.

Occorre, quindi, chiedersi se la valutazione di tale adeguatezza debba essere o meno lasciata alla discrezionalità dell’imprenditore e non sia sindacabile se non nell’ipotesi di manifesta irrazionalità.

Inoltre, tale giudizio non può prescindere dalla tipologia dell’impresa, dalle sue dimensioni, dalla natura dell’attività e dalla struttura nonché dalle caratteristiche dei rischi in grado di venire in rilievo.

Pertanto, l’attuale assetto e i paradigmi consolidati nell’interpretazione giurisprudenziale non potranno prescindere da un rinnovato approccio che possa conciliarsi con una rinnovata lettura della c.d. business judgment rule in base alla quale sussiste la responsabilità dinanzi a scelte manifestatamente irrazionali senza escludere, però, a priori, la possibilità di una valutazione flessibile in ordine alla correttezza gestionale come, peraltro, sembra suggerire la riforma.

Si pensi anche ai rimedi previsti in capo ai creditori di una S.r.l. nei confronti degli amministratori che non abbiano adempiuto agli obblighi relativi alla conservazione dell’integrità del patrimonio della società. Ed invero, l’art. 2476, comma 6, c.c., così come novellato dall’art. 378, comma 1, CCII, introduce un’azione giudiziale promossa dai creditori laddove il patrimonio sociale risulti insufficiente al soddisfacimento dei loro crediti.

Altra importante modifica che interessa la materia in esame concerne i criteri per la determinazione del danno arrecato nella fase di scioglimento di una società di capitali.

In particolare, in base all’art. 2486 c.c., laddove si verifichi una causa di scioglimento della società e sino al passaggio della medesima in capo ai liquidatori, gli amministratori conservano il potere di gestione, ma soltanto al fine della conservazione dell’integrità del valore del patrimonio sociale. Nell’ipotesi in cui gli amministratori non si attengano a tale gestione puramente conservativa saranno personalmente e solidalmente responsabili dei danni arrecati alla società, ai soci, ai creditori sociali e ai terzi a seguito di atti o omissioni poste in essere in violazione di tale dovere.

Tale norma non specificava, però i criteri di quantificazione del pregiudizio arrecato dagli amministratori e la giurisprudenza aveva così elaborato un criterio che il CCII ha oggi modificato introducendo in via legislativa un nuovo 3 comma all’art. 2486 c.c. Il criterio è, quindi, quello del c.d. netto patrimoniale secondo cui il danno è pari alla differenza tra i patrimoni netti, mentre, in via suppletiva, in caso di scritture contabili mancanti o irregolari che non consentano di determinare il patrimonio netto, si introduce quello della differenza tra attivo e passivo, il c.d. criterio differenziale.

Come emerge da queste brevi considerazioni, appare chiaro come la giurisprudenza sarà chiamata ad uno sforzo ermeneutico finalizzato ad esplorare i nuovi confini della responsabilità sino ad oggi consolidati.

In questo senso, una ricostruzione dello stato dell’arte può agevolare l’interprete stabilendo un primo punto di partenza per esplorare alcuni principi consolidati e alcune zone “sismiche”, attesa la loro probabile evoluzione, della responsabilità degli amministratori.

Natura dell’azione di responsabilità sociale promossa contro amministratori e sindaci di società di capitali

Con riferimento alla natura dell’azione sociale di responsabilità promossa contro amministratori e sindaci di società di capitali, la Suprema Corte (Cass. Civ. 7 febbraio 2020, n. 2975) ne ha ribadito la natura contrattuale. Da ciò deriva che l’attore sarà chiamato a provare la sussistenza delle violazioni contestate, il nesso di causalità tra di esse e il danno verificatosi, mentre sul convenuto incombe l’onere di dimostrare la non imputabilità del fatto dannoso alla propria condotta, fornendo altresì la prova positiva dell’osservanza dei doveri e dell’adempimento degli obblighi imposti.

Nel caso in cui tali comportamenti non siano, però, vietati in sé dalla legge o dallo statuto, e l’obbligo di astenersi dal porli in essere discenda dal dovere di lealtà, l’illecito è integrato dal compimento dell’atto in violazione di uno di tali doveri.

L’obbligo che grava sull’amministratore è integrato dal precetto di non agire in conflitto di interessi con la società amministrata, o dal dovere di diligenza, consistente nell’adottare tutte le misure necessarie alla cura degli interessi sociali a lui affidati.

Orbene, in questo caso l’onere della prova dell’attore non si esaurisce nella prova dell’atto compiuto dall’amministratore, ma investe anche quegli elementi di contesto dai quali è possibile dedurre che lo stesso integri una violazione del dovere di lealtà o di diligenza (Cass. Civ. 17 gennaio 2007, n. 1045).

Nel caso concreto, la Suprema Corte confermava la sentenza di merito che, a fronte della contestazione di poste passive ingiustificate esposte in bilancio, aveva ritenuto dimostrata dagli amministratori convenuti l’insussistenza dell’illecito mediante la produzione di documentazione giustificativa contestata solo genericamente dagli attori.

Tale pronuncia giunge però all’esito di un procedimento che prende le mosse dalla citazione da parte dei soci di minoranza di una S.r.l. dinanzi al Tribunale di Milano nei confronti dei soci e degli amministratori al fine di ottenere la loro revoca per mala gestio dalla carica di amministratori della società, nonché il risarcimento dei danni cagionati.

In particolare, gli addebiti mossi ai convenuti riguardavano la mancanza di chiarezza nel bilancio del 2007, spese non giustificate, percezione di compensi illegittimi, l’utilizzo gratuito e personale di uno degli immobili dell’ente e la percezione di un premio annuale rapportato alle fideiussioni prestate a copertura di un contratto di leasing a favore della società.

In primo grado, il Tribunale di Milano accoglieva solo parzialmente le domande proposte dagli attori e riteneva fondati alcuni addebiti disponendo la revoca per mala gestio dalla carica di amministratori della società, condannandoli, inoltre, in solido al risarcimento del danno.

Con sentenza del 15 dicembre 2015 la Corte d’Appello di Milano, in riforma della sentenza di primo grado, dichiarava cessata la materia del contendere quanto alla revoca dalla carica di amministratori e respingeva le ulteriori domande degli attori.

Avverso tale sentenza proponevano ricorso per Cassazione i soci, gli amministratori con controricorso e anche la società.

La Suprema Corte nella propria ricostruzione ribadisce alcuni principi consolidati in materia, sottolineando come il creditore che agisca per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno, ovvero per l’adempimento, debba soltanto provare la fonte, negoziale o legale, del proprio diritto ed il relativo termine di scadenza, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell’inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato dell’onere della dimostrazione del fatto estintivo dell’altrui pretesa, costituito dall’avvenuto adempimento, o dall’eccezione d’inadempimento del creditore ex art. 1460 c.c. (Cass. Civ. 12 ottobre 2018, n. 25584).

Pertanto, la natura contrattuale della responsabilità degli amministratori e dei sindaci nei confronti della società comporta che questa abbia soltanto l’onere di dimostrare la sussistenza delle violazioni ed il nesso di causalità fra esse ed il danno verificatosi, mentre incombe sugli amministratori e sindaci l’onere di dimostrare la non imputabilità del fatto dannoso, fornendo altresì la prova positiva, con riferimento agli addebiti contestati, dell’osservanza dei doveri e dell’adempimento degli obblighi loro imposti (Cass. Civ. 11 novembre 2010, n. 22911; Cass. Civ. 31 agosto 2016, n. 17441).

Responsabilità dell’amministratore e assunzione solo “formale” dell’incarico

Come ha avuto modo di precisare il Tribunale di Roma (Trib. Roma 29 gennaio 2020, n. 1977), la responsabilità non è esclusa nel caso in cui l’amministratore sostenga di aver assunto solo formalmente l’incarico.

Ed invero, come si è precisato, l’azione sociale di responsabilità nei confronti dell’amministratore, ai sensi dell’art. 2476, comma 3, c.c. ha natura contrattuale e la responsabilità sussiste a fronte della violazione dei doveri imposti agli amministratori dalla legge o dall’atto costitutivo, ovvero dalla violazione dell’obbligo generale di vigilanza e di intervento preventivo e successivo.

Tali obblighi gravano, infatti, sugli amministratori in forza del mandato loro conferito e del rapporto che, per effetto della preposizione gestoria e del susseguente inserimento nell’organizzazione sociale, si instaura con la società.

La norma in parola si inserisce all’interno della disciplina prevista in materia di responsabilità degli amministratori definendo da un lato i presupposti sui quali essa si fonda (art. 2476, comma 1, c.c.) e, dall’altro riconoscendo la legittimazione attiva a ciascun socio a prescindere dall’ammontare della quota di partecipazione al capitale sociale, all’esercizio dell’azione sociale di responsabilità, congiuntamente alla possibilità di chiedere un provvedimento cautelare di revoca degli amministratori, laddove siano integrate ipotesi di gravi irregolarità (art. 2476, comma 3, c.c.).

Il principio di diritto ribadito dalla pronuncia del Tribunale di Roma, in definitiva, è quello secondo cui la responsabilità per mala gestio non è esclusa nel caso in cui si sostenga che la carica di amministratore sia stata assunta solo formalmente e di non aver gestito, di fatto, la società.

Peraltro, l’inerzia dell’amministratore di diritto e la circostanza che lo stesso, pur avendo accettato la carica di amministratore unico, abbia omesso le attività, anche di controllo, dovute in ragione dell’assunzione del mandato gestorio vale di per sé a fondare la responsabilità anche per eventuali sottrazioni o distrazioni di risorse sociali, come accaduto nel caso preso in esame dalla pronuncia in commento, poste in essere da terzi senza l’opposizione del soggetto che, per legge, è gravato dal dovere di preservare l’integrità del patrimonio sociale e la destinazione dello stesso all’attività di impresa.

Può, infatti, ritenersi principio di portata generale, destinato ad operare anche in presenza di un asserito co-amministratore di fatto, quello secondo cuigli amministratori sono solidalmente responsabili se, essendo a conoscenza di atti pregiudizievoli, non hanno fatto quanto potevano per impedirne il compimento o eliminarne o attenuarne le conseguenze dannose.

Tale pronuncia offre anche al giudice l’occasione per svolgere delle importanti considerazioni di carattere generale in merito alla disciplina vigente in tema di responsabilità dell’amministratore. Ed invero, come è noto il legislatore con l’art. 2476 c.c. ha inteso disciplinare in maniera autonoma la responsabilità dell’amministratore di società a responsabilità limitata per condotte di mala gestio foriere di danni a carico del patrimonio sociale ed i rimedi in concreto esperibili.

In particolare, l’azione sociale intrapresa ai sensi dell’art. 2476, comma 3, c.c. mira a far valere la responsabilità degli amministratori per quelle violazioni che abbiano cagionato un pregiudizio patrimoniale alla società. Gli amministratori, infatti, devono adempiere doveri ad essi imposti dalla legge e dall’atto costitutivo con la diligenza richiesta dalla natura dell’incarico e dalle loro specifiche competenze, esponendosi a responsabilità per i danni derivanti dall’inosservanza di tali obblighi.

L’inadempimento degli amministratori ai loro doveri, quindi, può essere fatto valere direttamente dalla società senza che occorra a tal fine un’apposita delibera assembleare che autorizzi l’esercizio dell’azione.

Il rimedio è finalizzato al reintegro del patrimonio sociale danneggiato dagli amministratori e, pertanto, rappresenta uno strumento di conservazione dello stesso e non un mero mezzo di controllo dell’operato degli amministratori.

Come già ribadito, in ragione del rilievo che assume ai fini del riparto dell’onere della prova, l’azione sociale di responsabilità di cui al comma 3 ha natura contrattuale. Tale azione, infatti, scaturisce dall’inadempimento dei doveri imposti agli amministratori dalla legge o dall’atto costitutivo, ovvero dall’inadempimento dell’obbligo generale di vigilanza e di intervento preventivo e successivo. Tali obblighi gravano sugli amministratori in forza del mandato a loro conferito e del rapporto che, per effetto della preposizione gestoria e del susseguente inserimento nell’organizzazione sociale, si instaura con la società.

Dalla qualificazione della responsabilità degli amministratori come contrattuale deriva che sulla società che agisce grava l’onere di dimostrare la sussistenza delle violazioni agli obblighi – che costituiscono obbligazioni di mezzi e non di risultato – i pregiudizi concretamente sofferti ed il nesso eziologico tra l’inadempimento ed il danno prospettato. Incombe, invece, sull’amministratore l’onere di dimostrare la non imputabilità a sé del fatto dannoso, ovvero di fornire la prova positiva, con riferimento agli addebiti contestati, dell’osservanza dei doveri e dell’adempimento degli obblighi posti a suo carico.

In altri termini, anche con riferimento all’inadempimento dell’amministratore ai doveri ed obblighi posti a suo carico, opera la presunzione di colpa ricavabile dal generale disposto dell’art. 1218 c.c., con la conseguenza che la società che agisce con il rimedio di cui all’art. 2476 c.c. non è tenuta ad offrire la prova positiva dell’elemento soggettivo, gravando, invece, sull’amministratore chiamato in responsabilità dimostrare di aver adempiuto il proprio compito con diligenza ed in assenza di conflitto di interessi con la società, ovvero che l’inadempimento sia stato determinato da causa a lui non imputabile ex art. 1218 c.c., ovvero, ancora, che il danno è dipeso dal caso fortuito o dal fatto di un terzo (Cass. Civ. 24 marzo 1999, n. 2772; Trib. Roma 8 maggio 2003; Cass. Civ. 22 ottobre 1998, n. 10488).

L’amministratore della società, in forza della mera accettazione dell’incarico, è gravato dagli specifici obblighi contemplati dalla legge o dallo statuto, nonché dal generale dovere di esercitare le proprie funzioni con diligenza ed in assenza di conflitto di interessi in vista del perseguimento dell’oggetto sociale.

In particolare, l’accettazione del mandato gestorio comporta per l’amministratore l’obbligo di attivarsi affinché i beni e le risorse di pertinenza della società vengano destinati al perseguimento dei fini sociali e non siano in altro modo “distratti o distolti”.

La responsabilità connessa al ruolo di amministratore, infatti, si determina per effetto della nomina da parte dell’organo competente e della successiva accettazione di tale nomina da parte del soggetto designato, che perciò assume l’impegno di adempiere a tutti gli obblighi connessi alla carica e di svolgere le funzioni gestorie con la diligenza professionale richiesta dalla natura dell’incarico. Pertanto, come anticipato in apertura, non esclude la responsabilità per mala gestio l’aver assunto solo “formalmente” l’incarico.

Infine, il risarcimento del danno al quale è tenuto l’amministratore dà luogo ad un debito di valore, avendo per contenuto la reintegrazione del patrimonio della società danneggiata nella situazione economica preesistente al verificarsi dell’evento dannoso, con la conseguenza che nella liquidazione del risarcimento del danno deve tenersi conto della svalutazione monetaria verificatasi tra il momento in cui si è prodotto il danno e la data della liquidazione definitiva.

Questo, peraltro, rileva anche se, al momento della sua produzione, il danno consista nella perdita di una determinata somma di denaro, atteso che quest’ultima vale soltanto ad individuare il valore di cui il patrimonio del danneggiato è stato diminuito e può essere assunta come elemento di riferimento per la determinazione dell’entità del danno (Cass. Civ. 27 luglio 1978, n. 3768; Cass. Civ. 14 marzo 1985, n. 1981; Trib. Milano 14 marzo 1991).

Per quanto concerne, invece, l’azione di responsabilità promossa dal curatore fallimentare contro gli ex amministratori e sindaci della società fallita, la Corte (Cass. Civ. 7 febbraio 2020, n. 2975) ribadisce come competa, a colui che agisca, fornire la prova dell’esistenza del danno, del suo ammontare e del fatto che esso sia stato causato dal comportamento illecito di un determinato soggetto.

Si può, infatti, configurare un’inversione dell’onere probatorio solo quando l’assoluta mancanza, ovvero l’irregolare tenuta delle scritture contabili rendano impossibile al curatore fornire la prova del predetto nesso di causalità.

Ed invero, nel caso all’esame della Corte, tale condotta, integrando la violazione di specifici obblighi di legge in capo agli amministratori, è di per sé idonea a tradursi in un pregiudizio per il patrimonio (Cass. Civ. 4 aprile 2011, n. 7606).

Sul punto, l’art. 146 l.fall. stabilisce una generica ed omnicomprensiva legittimazione del curatore a promuovere a beneficio della massa tutte le azioni di responsabilità verso amministratori, sindaci, liquidatori e soci di S.r.l., con la conseguenza che, nella prassi, lo si ammette a far valere in via cumulativa tutti i titoli di responsabilità.

Per quanto riguarda, infine, l’azione di responsabilità verso gli amministratori sociali, sull’attore incombe la prova dell’illiceità dei comportamenti dei medesimi.

Nel caso in cui tali comportamenti non siano in sé vietati dalla legge o dallo statuto e l’obbligo di astenersi dal porli in essere discenda dal dovere di lealtà, l’illecito è integrato dal compimento dell’atto in violazione di uno di tali doveri.

Si tratta in particolare del dovere di non agire in conflitto di interessi con la società amministrata, o dal dovere di diligenza, consistente nell’adottare tutte le misure necessarie alla cura degli interessi sociali a lui affidati.

In tal caso l’onere della prova dell’attore non si esaurisce nella prova dell’atto compiuto dall’amministratore, ma investe anche quegli elementi di contesto dai quali è possibile dedurre che lo stesso implica violazione del dovere di lealtà o di diligenza (Cass. Civ. 17 gennaio 2007, n. 1045).

Azione di responsabilità nei confronti di amministratori e sindaci: contenuto e riparto dell’onere della prova

Sempre in tema di onere della prova la giurisprudenza di merito (App. L’Aquila 13 febbraio 2020, n. 257) si è recentemente espressa affermando come, nonostante l’azione in parola abbia natura contrattuale, non valga il principio generale di cui all’art. 1218 c.c. in tema di riparto della prova e gravi sull’attore l’onere di dimostrare la sussistenza delle violazioni addebitate, del danno subìto e del nesso di causalità tra le une e l’altro, incombendo su amministratori e sindaci l’onere di dimostrare la non imputabilità a sé del fatto dannoso e di fornire la prova positiva dell’osservanza dei doveri e dell’adempimento degli obblighi loro imposti.

Pertanto, mente dell’art. 2476 c.c. per promuovere l’azione di responsabilità non è sufficiente la sussistenza di una condotta inadempiente degli obblighi che gravano sull’amministratore, ma è necessario un quid pluris: il danno risarcibile.

Sul punto, la giurisprudenza ha più volte affermato che “sebbene l’azione di responsabilità nei confronti di amministratori e sindaci abbia natura contrattuale, in tema di onere della prova non vale il principio generale di cui all’art. 1218 c.c.”, con la conseguenza che all’attore spetta l’onere di dimostrare la sussistenza delle violazioni addebitate, del danno patito e del nesso di causalità tra le une e l’altro, incombendo su amministratori e sindaci l’onere di dimostrare la non imputabilità a sé del fatto dannoso e di fornire la prova positiva dell’osservanza dei doveri e dell’adempimento degli obblighi loro imposti (Cass. Civ. 25 luglio 2018, n. 19742 e App. Milano 6 giugno 2012).

Pertanto, chi promuove tale azione deve allegare e provare tanto l’esistenza di un danno concreto, consistente nel depauperamento del patrimonio sociale di cui si chiede il ristoro, quanto la sussistenza del nesso di causalità tra tale danno e il fatto dell’amministratore inadempiente.

Nel caso in esame gli appellanti si limitavano ad invocare come uniche voci di danno quelle dei maggiori interessi e sanzioni maturati su cartelle esattoriali asserendo che, nel caso in cui i proventi di un mutuo concesso alla società fossero stati impiegati per estinguere il debito nei confronti dell’agente di riscossione, si sarebbe conseguito un considerevole risparmio.

Tuttavia, la Corte d’Appello ritiene che le allegazioni probatorie da sole considerate e in mancanza di una dettagliata analisi di bilancio della società da cui si possa evincere il complessivo depauperamento della medesima e, quindi, l’impossibilità di assolvere in altro modo agli obblighi di pagamento, non costituiscano prova del danno.

Ed invero, secondo la Corte il danno che consegue alla responsabilità dell’amministratore non consiste tanto nei pagamenti che la società ha fatto e che avrebbe, ipoteticamente, potuto fare se avesse operato altre scelte, ma nel depauperamento complessivo della società, tale da rendere impossibile, più difficoltoso o più oneroso il pagamento per difetto assoluto di risorse finanziarie.

Il danno nell’azione individuale di responsabilità

La Corte di Cassazione (Cass. Civ. 20 maggio 2020, n. 9206), sempre con riferimento alla tematica del danno, ha poi ribadito come l’azione individuale di responsabilità in materia societaria, ai sensi dell’art. 2395 c.c., esiga che il comportamento doloso o colposo dell’amministratore, posto in essere tanto nell’esercizio dell’ufficio, quanto al di fuori delle incombenze ad esso correlate, abbia determinato un danno che incida direttamente sul patrimonio del socio o del terzo. È, invece, irrilevante che il comportamento dell’amministratore sia stato o meno conforme agli interessi della società o a vantaggio di questa.

La norma configura, infatti, uno strumento di tutela in favore dei soci o dei terzi che subiscano un danno in conseguenza degli illeciti, mentre l’elemento di diversità dell’azione individuale di responsabilità rispetto all’azione sociale ed a quella dei creditori è rappresentato dall’incidenza diretta del danno sul patrimonio del socio o del terzo. L’azione sociale è, infatti, finalizzata al risarcimento del danno al patrimonio sociale che incida soltanto indirettamente sul patrimonio dei soci, l’azione individuale postula la lesione di un diritto soggettivo patrimoniale del socio o del terzo che non sia conseguenza del depauperamento del patrimonio della società.

A differenza del terzo che non può risentire del danno se non da un atto che incida direttamente sul proprio patrimonio, il socio è pregiudicato anche dal danno che si produce nel patrimonio della società che determina una riduzione del valore reale della sua partecipazione. Tale danno “riflesso”, pur essendo una conseguenza immediata e diretta del fatto illecito, esula dalla fattispecie dell’art. 2395 c.c., potendo essere risarcito solo in favore della società ai sensi degli artt. 2393 e 2393-bis c.c.

In particolare, è interessante sottolineare il percorso logico argomentativo che segue la Suprema Corte in ordine alla censura – respinta – mossa nei confronti della pronuncia di appello. Secondo il ricorrente, infatti, la sentenza impugnata ha ritenuto che gli amministratori fossero direttamente responsabili per i danni da inadempimento della transazione “sulla base di una ricostruzione della vicenda fondata sulla riconducibilità dell’inadempimento alla volontà dell’organo di amministrazione, ma senza l’isolamento della fattispecie di alcun comportamento degli amministratori atto a collocarsi fuori dalla sfera di operatività della rappresentanza organica e quindi in assenza di una qualsiasi atto degli amministratori che non fosse reversibile sulla società”.

Sul punto, nel rigettare la doglianza, la Suprema Corte prende le mosse dalla propria giurisprudenza ribadendo come secondo l’orientamento ormai consolidato non rileva che il danno sia stato arrecato dagli amministratori nell’esercizio del loro ufficio o al di fuori di tali incombenze, ovvero che tale danno sia ricollegabile ad un inadempimento della società, né, infine, che l’atto lesivo sia stato eventualmente compiuto dagli amministratori nell’interesse della società e a suo vantaggio. Questo perché dalla formulazione dell’art. 2395 c.c. emerge chiaramente come l’unico dato significativo ai fini della sua applicazione sia costituito dall’incidenza del danno (Cass. Civ. 3 aprile 2007, n. 8359).

Nel caso in esame rileva la responsabilità degli amministratori in relazione all’inadempimento contrattuale di una società di capitali e la giurisprudenza della Cassazione ha sempre manifestato un orientamento coerente nell’affermare il principio per cui la sussistenza di una “condotta dolosa o colposa degli amministratori medesimi, del danno e del nesso causale tra questa e il danno patito dal terzo contraente” si pongano come elementi tanto necessari, quanto sufficienti al riguardo (Cass. Civ. 12 giugno 2019, n. 15822 e Cass. Civ. 8 settembre 2015, n. 17794).

Peraltro, come ricorda la Corte, la valutazione del carattere doloso o colposo del comportamento concreto tenuto dagli amministratori è un accertamento di fatto che esula dal sindacato proprio del giudizio di legittimità.

La legittimazione processuale all’azione ex art. 2476, comma 3, c.c.

Per quanto concerne l’azione di responsabilità degli amministratori promossa dai soci di una società di capitali ex art. 2476, comma 3, c.c., il Tribunale di Roma (Trib. Roma 28 febbraio 2020, n. 4372) ha recentemente affrontato il tema sotto il versante della legittimazione processuale.

Il caso prende le mosse dall’azione promossa da un socio di S.r.l. che lamentava, tra le altre cose, il compimento di gravi condotte di mala gestio da parte di due componenti il Consiglio di Amministrazione e dell’Amministratore unico con conseguente danno a carico del patrimonio sociale.

Il Tribunale dichiara improcedibile l’azione di responsabilità del socio in qualità di sostituto processuale della società.

La decisione si fonda sulla considerazione secondo cui nella pendenza del giudizio l’attore avrebbe perso la qualità di socio e la conseguente legittimazione a far valere, in nome proprio, il diritto della società al risarcimento dei danni per condotte di mala gestio degli amministratori.

La pronuncia offre così l’occasione per approfondire il tema della legittimazione, degli aspetti processuali e della natura giuridica.

Ed invero, come noto, l’art. 2476, comma 3, c.c. accorda ad ogni socio, a prescindere dalla consistenza della relativa partecipazione sociale, la legittimazione a promuovere azione di responsabilità nei confronti degli amministratori per i danni arrecati al patrimonio sociale derivanti dall’inosservanza degli obblighi ad essi imposti dalla legge e dall’atto costitutivo.

La norma contempla, infatti, un’ipotesi di sostituzione processuale e con tale rimedio il socio fa valere, in nome proprio, il diritto della società alla reintegrazione, per equivalente monetario, del pregiudizio al proprio patrimonio, derivato dalla violazione dei doveri di corretta e prudente gestione che, per legge e per statuto, incombono sull’amministratore in forza del rapporto di preposizione organica di fonte contrattuale che lega quest’ultimo e la società.

Tuttavia la dinamica della sostituzione non esclude che il socio sia portatore di un proprio interesse ad agire, apprezzabile ai sensi dell’art. 100 c.p.c., ai fini della reintegrazione del patrimonio della società. Del resto, del provento dell’azione si giova il patrimonio sociale e l’azione intentata dal singolo socio può essere rinunciata o transatta dalla sola società.

Nel caso preso in esame dal tribunale di Roma, il giudice sottolinea come l’art. 2476, comma 3, c.c. nella parte in cui contempla la legittimazione del singolo socio ad agire in nome proprio e nell’interesse della società partecipata, è necessariamente una norma di stretta interpretazione e non passibile di estensione in via analogica. Ciò si ricava alla luce del disposto dell’art. 81 c.p.c. a mente del quale “fuori dei casi espressamente previsti dalla legge, nessuno può far valere nel processi in nome proprio un diritto altrui”.

Pertanto, in definitiva, deve ritenersi che la legittimazione ad esperire il rimedio di cui al comma 3 dell’art. 2476 c.c. competa, oltre che alla “società interessata”, esclusivamente a coloro che rivestano la qualità di soci della S.r.l. danneggiata dalle condotte di mala gestio degli amministratori.

Inoltre, proprio in quanto integrante il presupposto della speciale legittimazione ad agire in veste di sostituto processuale della società danneggiata, lo status di socio in capo all’istante deve necessariamente persistere durante l’intera durata del giudizio. Ed invero, le condizioni dell’azione, tra cui la legittimazione ad agire, devono sussistere non solo all’atto della proposizione della domanda giudiziale, ma anche al momento della pronuncia.

Alla luce di tali considerazioni, quindi, il Tribunale rileva l’improcedibilità dell’azione in ragione del fatto che il socio ha perso la qualità di socio della società in epoca successiva all’esercizio dell’azione in parola e conseguentemente la legittimazione ad agire.

Sotto un altro profilo, i giudici ritengono privo di pregio l’assunto del socio che sosteneva di aver esercitato l’azione di responsabilità non solo quale sostituto processuale della società, ma anche nell’interesse proprio.

In particolare, si afferma come non potrebbe che essere rigettata la domanda del socio volta ad ottenere, in proprio favore, il risarcimento del pregiudizio riflesso asseritamente subìto in conseguenza di condotte di mala gestio degli amministratori direttamente lesive del patrimonio sociale.

Sul punto, infatti, i giudici offrono una completa ricostruzione normativa e sistematica partendo dalla considerazione secondo cui, a seguito dell’entrata in vigore della riforma di cui al D.Lgs. n. 6/2003, la responsabilità dell’amministratore di società a responsabilità limitata per condotte, che siano direttamente lesive del patrimonio dei singoli soci o dei terzi trovi, specifica previsione nell’art. 2476 c.c. Tale norma, infatti, dopo aver disciplinato l’azione sociale di responsabilità al comma 6, con una norma del medesimo tenore di quella trasfusa nell’art. 2395 c.c. in tema di società per azioni, prevede testualmente che “le disposizioni di cui ai precedenti commi non pregiudicano il diritto al risarcimento dei danni spettante al singolo socio o al terzo che sono stati direttamente danneggiati da atti dolosi o colposi degli amministratori”.

Sul punto, la giurisprudenza costante, con riferimento all’analogo disposto dell’art. 2395 c.c., ha affermato come l’azione individuale, spettante ai soci o ai terzi per il risarcimento dei danni ad essi derivati per effetto di atti dolosi o colposi degli amministratori, presupponga che i danni stessi non siano solo il riflesso di quelli arrecati eventualmente al patrimonio sociale, ma siano stati direttamente cagionati ai soci o terzi, come conseguenza immediata del comportamento degli amministratori medesimi.

Tale azione individuale, quindi, è un rimedio utilmente esperibile soltanto quando la violazione del diritto individuale del socio o del terzo sia in rapporto causale diretto con l’azione degli amministratori.

In questi termini si è espressa la Suprema Corte precisando come “l’azione individualmente concessa ai soci per il risarcimento dei danni loro cagionati dagli atti dolosi o colposi degli amministratori, di natura extracontrattuale, presuppone che i danni suddetti non siano solo il riflesso di quelli arrecati eventualmente al patrimonio sociale, ma siano direttamente cagionati al socio come conseguenza immediata del comportamento degli amministratori” (Cass. Civ. 25 luglio 2007, n. 16416).

Inoltre, la Cassazione in una fattispecie nella quale il socio lamentava la distrazione e sottrazione di utili da parte dell’amministratore, ha precisato come il danno diretto non possa consistere nella mancata distribuzione ai soci di utili, perché questi, prima della distribuzione, appartengono alla società così che il danno immediato e diretto, derivante dalla distrazione di utili da parte degli amministratori prima della distribuzione, è della società e non dei soci. Quest’ultimi, infatti, ne vengono pregiudicati solo di riflesso e non sono neppure abilitati a proporre azione d’indebito arricchimento nei confronti dell’amministratore per conseguire la quota di utili occultati nel bilancio di esercizio (Cass. Civ. 7 settembre 1993, n. 9385).

In un’altra pronuncia la Corte di Cassazione, con riferimento al pregiudizio consistente nella riduzione del valore della partecipazione societaria, ha precisato come neppure detta riduzione costituisca danno diretto ai sensi dell’art. 2395 c.c. e art. 2476, comma 6, c.c., in quanto rappresenta un effetto mediato di quello asseritamente arrecato al patrimonio sociale. In particolare, si legge nella decisione che “La partecipazione sociale, pur attribuendo al socio una complessa posizione, comprensiva di diritti e poteri, è infatti un bene distinto dal patrimonio sociale e, quindi, nell’ipotesi di (prospettata) diminuzione di valore della misura della partecipazione, il pregiudizio derivante al socio è una conseguenza indiretta e soltanto eventuale della condotta dell’amministratore o del liquidatore o, anche, di altro socio o di un terzo concorrenti nell’illecito dei primi” (Cass. Civ. 22 marzo 2011, n. 6558).

In definitiva, ciò che caratterizza l’azione exart. 2476, comma 6, c.c., al pari del rimedio di cui all’art. 2395 c.c., è rappresentato dall’incidenza diretta sul patrimonio individuale dei soci o dei terzi dei comportamenti illeciti degli amministratori, ovvero la circostanza che le condotte dolose o colpose di questi abbiano arrecato pregiudizio in via immediata a soci o a terzi.

Nel caso in cui, invece, il danno incida sul patrimonio sociale, il pregiudizio per i soci, conseguente, ad esempio, alla riduzione della reddittività ovvero del valore della partecipazione, o per i terzi costituisce un effetto meramente indiretto e riflesso. In questo caso, infatti, i soci o i terzi non hanno la legittimazione ad esperire l’azione ex art. 2476, comma 6, c.c. o ex art. 2395 c.c., poiché il diritto al risarcimento del danno spetta alla società.

In conclusione, si ricorda come la Corte di Cassazione, nel rimarcare e ribadire tali principi, abbia evidenziato come, diversamente opinando “si finirebbe con il configurare un plurimo risarcimento per lo stesso danno” (Cass. Civ. 3 aprile 2007, n. 8359).

L’azione di responsabilità degli amministratori e controllo dei soci nell’ipotesi di fusione

Un ulteriore aspetto che è stato affrontato dalla giurisprudenza di merito (Trib. Milano 5 marzo 2020, n. 2019) concerne l’esperibilità dei rimedi in punto di responsabilità degli amministratori delle società di capitali e il controllo da parte dei soci nell’ipotesi di fusione.

Ancora una volta la norma di riferimento è l’art. 2476 c.c. che, come già affermato, rappresenta una delle norme centrali della disciplina delle S.r.l. e contiene una serie di disposizioni particolarmente importanti che regolano compiutamente non soltanto la responsabilità degli amministratori, ma ulteriori aspetti della materia.

La questione affrontata nella pronuncia in commento ha ad oggetto la citazione da parte della società controllante dinanzi al Tribunale di Milano dell’ex amministratore di una società controllata affinché ne fosse accertata la responsabilità per mala gestio.

In particolare, l’amministratore aveva sottoscritto e autorizzato più di 530 transazioni aventi ad oggetto strumenti finanziari derivati di natura speculativa al di fuori del perimetro dei poteri delegati dal consiglio di amministrazione cagionando alla società controllata perdite per quasi 14 milioni di euro anche a causa della mancata attivazione dei meccanismi di riduzione del rischio finanziario (c.d. stop loss).

La controllante riteneva la condotta dell’amministratore caratterizzata da negligenza per aver continuato ad operare nel mercato degli strumenti derivati finanziari anche a seguito del divieto di sottoscrizione di nuovi derivati imposto dal consiglio di amministrazione della controllante stessa e per aver assunto alla controllata un profilo imprenditoriale e di rischio divergente rispetto al piano industriale approvato dalla holding. Inoltre, si ravvisava l’inadempimento da parte del convenuto agli obblighi informativi nei confronti degli altri membri del consiglio di amministrazione e dell’organo di controllo sempre con riferimento all’operatività degli strumenti derivati.

La prima questione affrontata dal Tribunale ha ad oggetto l’eccezione preliminare sollevata dall’amministratore in ordine alla improcedibilità nei propri confronti dell’azione proposta laddove il convenuto sostiene il venir meno in corso di causa della legittimazione ad agire di parte attrice sia ex art. 2476, comma 3, c.c., sia ex art. 2476, comma 6, c.c., a seguito della fusione per incorporazione della controllata nella controllante e della conseguente perdita da parte della prima della qualità di socio nella seconda.

Sul punto, si ricorda come l’art. 2476, comma 3, c.c. configuri un’ipotesi di sostituzione processuale, poiché legittima il socio a far valere, in nome proprio, il diritto della società al risarcimento del danno per mala gestio degli amministratori.

Alla luce di tali considerazioni, pertanto, come peraltro emerge dal costante orientamento giurisprudenziale in materia, l’attore deve mantenere lo status di socio per l’intera durata del giudizio, integrando esso il presupposto della legittimazione straordinaria ad agire in veste di sostituto processuale della società danneggiata.

Alla perdita della qualità di socio nel corso di causa consegue, quindi, in linea generale, l’improcedibilità dell’azione promossa.

Come evidenziato nella pronuncia in commento, tuttavia, tale circostanza rileva nei casi di “fuoriuscita del socio dalla compagine sociale”, mentre nell’ipotesi in esame la perdita della qualità di socio avveniva a seguito della fusione per incorporazione della società danneggiata in altra società. Con la conseguenza che trovava applicazione la disciplina dell’art. 2504-bis, comma 1, c.c. a mente del quale la società incorporante assumeva “i diritti e gli obblighi delle società partecipanti alla fusione”, proseguendo così in tutti i loro rapporti, anche processuali, anteriori alla fusione.

Pertanto, alla luce di tale disciplina, la società incorporante, transitando il diritto risarcitorio dal patrimonio della incorporata a quello della prima, mantiene la legittimazione con riferimento all’azione di responsabilità originariamente esercitata a far valere quel diritto.

La particolarità del caso in esame risiede però nel fatto che la società controllante, a seguito della fusione per incorporazione, è legittimata attiva nell’azione di responsabilità non più come legittimata straordinaria nella veste di socio, ma iure proprio in qualità di società incorporante che prosegue tutti i rapporti giuridici dell’incorporata.

La pronuncia in commento affronta, inoltre, il tema della natura giuridica dell’azione di responsabilità proposta in via subordinata dall’attore che viene qualificata dal convenuto ai sensi dell’art. 2476, comma 6, c.c.

La Suprema Corte ritiene che essa delinei un’ipotesi speciale della generale responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c. la quale reca, tra gli elementi specializzanti, la particolare qualifica soggettiva del danneggiato (il socio) e del danneggiante (l’amministratore).

In particolare, secondo il ragionamento della Corte, tali qualifiche soggettive si pongono quali elementi costitutivi di natura sostanziale e non processuale, con la conseguenza che devono sussistere al momento di perfezionamento della fattispecie legale.

Pertanto, la norma presuppone che l’attore faccia valere la propria qualità di socio nel momento in cui l’amministratore abbia cagionato il danno diretto nei suoi confronti, a nulla rilevando, sul diverso piano processuale della legittimazione ad agire e della procedibilità dell’azione, un’eventuale successiva perdita di tale qualifica.

Nel merito, la Suprema Corte rigetta la domanda di risarcimento dei danni a favore della società controllata ritenendo mancanti gli elementi costitutivi del diritto al risarcimento del danno per mala gestio dell’amministratore ai sensi dell’art. 2476, comma 3, c.c.

In particolare, si segnala come lo svolgimento di un’attività imprenditoriale altamente rischiosa, ma espressione di una precisa politica di gruppo delineata dalla società controllante, fosse strumentale al perseguimento dell’oggetto sociale.

Si trattava, infatti, di una scelta gestoria che rientrava pienamente nella discrezionalità gestionale degli amministratori, secondo il noto principio della c.d. business judgment rule.

Nel caso in esame, le scelte operate e l’attività svolta dalla holding e dalla società eterodiretta non hanno superato i limiti della razionalità gestoria, essendo risultata chiara sia la ragione imprenditoriale per la quale l’attività economica è stata configurata secondo un alto profilo di rischio (l’obiettivo, ovviamente legittimo, di conquistare uno spazio nel mercato della commercializzazione dell’energia da parte di una società start up), sia la ragione tecnica della stipula di contratti derivati – la copertura dal rischio di oscillazione dei prezzi, rischio tanto più elevato quanto più la politica stessa dei prezzi risultava “aggressiva” -, sia infine il pieno rispetto del principio dell’agire informato, risultando evidente come le opzioni operative e gestionali assunte – per quanto discutibili, sul piano dell’opportunità ed infine rivelatesi generatrici di perdite economiche – fossero state effettuate nella piena conoscenza dei mercati di riferimento e nella piena consapevolezza dei rischi stessi.

Responsabilità degli amministratori e controllo dei soci: rapporti tra processo penale e civile

La Corte di Cassazione (Cass. Civ. 27 dicembre 2019, n. 34529) ha, inoltre, affrontato il tema della responsabilità degli amministratori nell’ambito dei rapporti tra il processo penale e civile prendendo posizione in ordine alla eccezione di estinzione del giudizio civile per essersi una S.r.l. costituita parte civile nel processo penale incardinato a carico degli amministratori e del direttore generale ai sensi dell’art. 2476 c.c. In particolare, si sosteneva che la società avesse esercitato nei confronti dell’ex direttore generale, dapprima in sede civile e successivamente nel processo penale, l’azione di risarcimento del danno per i medesimi fatti materiali costituiti dalle falsità poste in essere nell’esercizio dell’incarico. Vi sarebbe, infatti, tra il giudizio civile e quello penale, una piena equivalenza di oggetto, con la conseguenza che il primo avrebbe dovuto essere dichiarato estinto a seguito della costituzione di parte civile avvenuta nel secondo. In realtà, come emerge pacificamente dalla giurisprudenza della Cassazione, la costituzione di parte civile comporta il trasferimento nel processo penale dell’azione precedentemente proposta in sede civile a norma dell’art. 75 c.p.p., con conseguente estinzione del giudizio civile per rinuncia agli atti nel solo caso di effettiva coincidenza delle azioni per petitum e causa petendi (Cass. Civ. 31 marzo 2005, n. 6754; Cass. Civ. 26 ottobre 2005, n. 20823; Cass. Civ., SS.UU., 18 marzo 2010, n. 6538).

Nel caso preso in esame dalla pronuncia in commento, che ha ad oggetto l’azione di responsabilità degli amministratori di una società di capitali, la Suprema Corte chiarisce come manchino i presupposti per la sospensione del giudizio civile avente ad oggetto l’azione di responsabilità proposta dalla società.

Ed invero, quest’ultima si costituiva parte civile nel processo penale a carico degli amministratori per falso in bilancio e nelle scritture contabili commesso dai medesimi e l’azione promossa in sede civile risulta fondata su fatti diversi da quelli oggetto del processo penale essendo diretta a far valere la responsabilità contrattuale e quella extracontrattuale degli amministratori rispettivamente derivante dagli inadempimenti dei doveri nei confronti della società e dall’inosservanza degli obblighi inerenti alla conservazione dell’integrità del patrimonio sociale (Cass. Civ. 28 gennaio 2005, n. 1812).

Nel caso in esame, inoltre, l’azione nei confronti del direttore generale e degli amministratori veniva esercitata ai sensi dell’art. 2476 c.c. per “l’inosservanza dei doveri ad essi imposti dalla legge e dall’atto costitutivo”. Sul punto, la Corte d’Appello ha svolto un accertamento in ordine all’oggetto dei due giudizi giungendo alla conclusione secondo cui l’oggetto del giudizio civile fosse ben più ampio ed omnicomprensivo rispetto a quello del giudizio penale atteso che quest’ultimo era limitato all’accertamento di una sola delle condotte illecite dalle quali era scaturito il danno per l’ente.  In particolare, essa si concretava nell’avere l’amministratore, in qualità di pubblico ufficiale, posto in essere falsità materiali in atti pubblici (art. 476 c.p.), nonché falsità in scritture private (art. 485 c.p.). Pertanto, la Corte di Cassazione dichiarava inammissibile il motivo di ricorso.

Infine, la Suprema Corte si pronuncia in merito alla legittimazione attiva della società ad agire in giudizio nei confronti degli amministratori e del direttore generale. Sul punto, il ricorrente censurava la sentenza d’appello denunciando la violazione per falsa applicazione dell’art. 2476 c.c. in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. ritenendo che “essendo la società titolare del diritto al risarcimento, pur in mancanza di espressa previsione normativa, l’esercizio di tale diritto compete ad essa prima che ad altri”. In particolare, si sostiene che nella società a responsabilità limitata, a differenza di quanto è previsto in materia di società per azioni, sussiste la legittimazione esclusiva del socio, ai sensi dell’art. 2476, comma 3, a far valere in giudizio la responsabilità degli amministratori della società.

Ciò sarebbe desumibile, oltre che dal tenore letterale del comma 3, anche dal disposto dell’art. 2479 c.c., che non prevede, tra le materie tassativamente soggette all’approvazione dei soci, quella dell’azione di responsabilità degli amministratori, diversamente da quanto previsto dall’art. 2393 c.c. per le società per azioni. Inoltre, dal fatto che l’azione dei soci non postula il litisconsorzio necessario con l’ente e dalla considerazione che questo rimborsa ai soci vittoriosi le spese sostenute, quale forma di garanzia patrimoniale, nei confronti dell’unico soggetto legittimato ad agire in giudizio.

Il motivo viene, tuttavia, ritenuto infondato e la Suprema Corte ripercorre l’indirizzo maggioritario della dottrina e della giurisprudenza.

Ed invero, si è sempre concordemente ritenuto che la legittimazione speciale del socio nella società a responsabilità limitata, abbia natura derivativa rispetto a quella della società, come è, peraltro, confermato dalle disposizioni in merito al diritto al rimborso delle spese di lite di cui all’art. 2476, comma 4, c.c. e da quelle concernenti la riserva alla società del potere di rinunciare o di transigere l’azione, di cui all’art. 2476, comma 5, c.c.

Inoltre, in ogni caso, del risultato dell’azione proposta dal socio quale sostituto processuale della società si giova esclusivamente il patrimonio sociale (Cass. Civ. 31 maggio 2016, n. 11264).

Pertanto, in definitiva, con riferimento all’azione individuale del socio di S.r.l., avente per oggetto l’esercizio dell’azione sociale di responsabilità contro gli amministratori, sussiste litisconsorzio necessario con la società stessa.

In definitiva, l’autonoma iniziativa del socio, riconosciuta dall’art. 2476, comma 3, c.c., senza vicolo di connessione con la quota capitale dallo stesso posseduta, non esclude che si tratti pur sempre di un’azione sociale di responsabilità, rifluendo l’eventuale condanna dell’amministratore unicamente nel patrimonio sociale e potendo solo la società – non il socio – rinunciare all’azione e transigerla (Cass. Civ. 4 luglio 2018, n. 17493; Cass. Civ. 26 maggio 2016, n. 10936).

La responsabilità dei direttori generali: questioni in materia di competenza

Nella sentenza Cass. Civ. 13 gennaio 2020, n. 345 la VI sezione civile della Suprema Corte si è pronunciata in ordine alla responsabilità dei direttori generali delle società di capitali di cui all’art. 2396 c.c. e, in particolare, in punto di riparto di competenza tra la sezione specializzata in materia d’impresa e la sezione lavoro sposando, dopo un’attenta ricognizione giurisprudenziale, l’indirizzo attualmente maggioritario.

Sul piano generale merita precisare come il codice civile non contenga una disciplina specifica relativa alla figura dei direttori generali, ma si limiti a delimitarne le responsabilità e, di conseguenza e implicitamente, i poteri.

In particolare, la Suprema Corte (Cass. Civ. 13 novembre 1999, n. 12603) ritiene che “la funzione del direttore generale è individuata per contrapposizione con quella degli amministratori, quest’ultima consistendo nella gestione dell’impresa, la prima nell’esecuzione, sebbene di livello elevato, delle disposizioni generali impartite nel corso della gestione”.

Ed invero, oltre all’art. 2396 c.c., l’art. 2434 c.c. esclude la liberazione da responsabilità in caso di approvazione del bilancio e l’art. 146 l.fall. assoggetta i direttori generali all’azione di responsabilità esercitata dal curatore.

I compiti dei direttori generali possono essere, quindi, riconducibili a finalità esecutive dellavolontà dell’organo amministrativo.

In particolare, mentre all’amministratore spetta la gestione dell’impresa, al direttore generale compete, invece, la “esecuzione, seppur al più elevato livello, delle disposizioni generali impartite nel corso di tale gestione, a nulla rilevando che al direttore generale possano essere affidati compiti di contenuto analogo a quelli incombenti sugli amministratori, sì che in concreto risulti difficoltoso ricollegare un atto all’una o all’altra funzione” (Cass. Civ. 10 novembre 1978, n. 8279).

Se si ripercorre brevemente la più recente giurisprudenza in materia, si nota come la Cassazione abbia assimilato ex lege la posizione apicale dei direttori generali a quella degli amministratori in ragione degli ampi poteri di cui dispongono (Cass. Civ. 3 settembre 2018, n. 39449).

In altri termini, “occorre che sussista lo svolgimento, in posizione subordinata rispetto agli amministratori, di funzioni decisionali nell’amministrazione con posizione di preminenza, di direzione e vigilanza sugli uffici e servizi dell’impresa, ancorché prive di rilevanza esterna […] cui si accompagni uno stabile inserimento nell’organizzazione imprenditoriale” (Cass. Civ. 5 dicembre 2008, n. 28819).

In particolare, la loro nomina è finalizzata sia al monitoraggio sull’andamento della vita sociale e degli affari in corso, con una funzione di supplenza rispetto agli amministratori, nonché per garantire, rispetto a quest’ultimi, una forma di specializzazione dei ruoli, essendo individuati sulla base di specifiche capacità e competenze.

Come anticipato, il legislatore si è limitato, in una sola norma, l’art. 2396 c.c., a delineare lo statuto dei direttori generali proprio in ragione della loro responsabilità, rinviando poi alle norme previste per gli amministratori e chiudendo la disposizione in parola con un rinvio alle “azioni esercitabili in base al rapporto di lavoro con la società”.

Proprio tale ultimo inciso dell’art. 2396 c.c. è all’origine della questione in ordine al concorso tra responsabilità societaria e responsabilità di lavoro.

Con tale inciso, infatti, il legislatore della riforma ha precisato come il direttore generale sia legato alla società da un rapporto di lavoro subordinato, con la conseguenza che esso sarà soggetto alle azioni che derivano da tale rapporto.

In alcune sentenze, tuttavia, si è ammessa la possibilità che il direttore generale possa essere esterno alla società e cioè non legato alla medesima da un vincolo di subordinazione (Cass. Civ. 4 giugno 1981, n. 3614; Cass. Civ. 14 luglio 1993, n. 7796).

In definitiva, però, il direttore generale in ordine al rapporto che lo lega alla società deve essere inquadrato nella categoria dei lavoratori dipendenti nonostante la Cassazione abbia rilevato un “fisiologico affievolimento del vincolo di subordinazione in ragione dell’ampiezza e della discrezionalità dei poteri che gli sono attribuiti” (Cass. Civ. 16 giugno 1979, n. 3400).

Pertanto, il direttore generale potrà essere così destinatario, su iniziativa degli amministratori, del licenziamento per giusta causa, in relazione all’inosservanza dei propri doveri, nell’ipotesi di esercizio dell’azione sociale di responsabilità e, nel caso in cui tale azione non sia esperibile, per l’assenza di danno.

L’azione di risarcimento del danno, derivante dall’inosservanza degli obblighi alla cui osservanza il direttore generale è tenuto in virtù del rapporto di lavoro subordinato, è esperibile in via alternativa o cumulativa insieme all’azione sociale di responsabilità.

Come già anticipato, l’art. 2396 c.c. equipara la posizione del direttore generale a quella dell’amministratore, estendendo il regime relativo a quest’ultimo ai direttori generali che siano stati nominati dall’assemblea o anche dal consiglio di amministrazione in base ad apposita disposizione dello statuto.

In particolare, la giurisprudenza prevalente ha ritenuto che l’investitura formale costituisca elemento di tipizzazione della responsabilità e che sia necessario ai fini dell’equiparazione dello statuto del direttore generale a quello degli amministratori: “il direttore generale rientra tra gli organi facenti parte della struttura tipica della società, purché la sua nomina sia stata prevista nell’atto costitutivo ovvero effettuata con deliberazione dell’assemblea, essendo tale derivazione primaria della sua investitura esplicitamente richiesta dall’art. 2396 cod. civ.” (Cass. Civ. 5 luglio 1968, n. 2284; Cass. Civ. 12 dicembre 2003, n. 18995).

In particolare, l’azione sociale di responsabilità dovrà essere deliberata dall’assemblea dei soci, ma potrà essere esercitata anche dai soci di minoranza e spetta anche agli organi delle procedure concorsuali.

La Corte di Cassazione ha avuto modo di potersi esprimere su questo tema con una pronuncia utile per ricostruire e mettere a sistema il dibattito – e il relativo approdo – in ordine alla competenza del giudice del lavoro in ragione dell’espressa clausola di salvezza stabilita dall’art. 2396 c.c. In particolare, nell’ipotesi in cui la responsabilità di un direttore generale di una società abbia ad oggetto un inadempimento posto in essere nello svolgimento delle proprie mansioni, ossia nell’ambito del rapporto di lavoro, l’azione “dovendosi effettuare una valutazione alla stregua della domanda e dei fatti costitutivi in essa allegati, non va proposta alla sezione specializzata del Tribunale delle imprese, di cui al D.lgs. n. 168/2003, ma al giudice del lavoro” (Cass. Civ. 3 luglio 2018, n. 17309; Cass. Civ. 24 luglio 2015, n. 15619).

La pronuncia prende le mosse dal ricorso per regolamento di competenza presentato da una società cooperativa avverso l’ordinanza del Tribunale di Trento – Sezione Imprese e avente ad oggetto il risarcimento dei danni causati alla società dal direttore generale, in subordine quale amministratore di fatto e, in ulteriore subordine, in violazione degli obblighi di cui al contratto di lavoro subordinato.

In particolare, la sezione specializzata riteneva dirimente il fatto che la nomina del direttore generale da parte del consiglio di amministrazione non sarebbe avvenuta in base ad una specifica previsione statutaria – con la conseguenza che l’azione concretamente azionata non sarebbe stata qualificabile come azione di responsabilità ai sensi dell’art. 2396 c.c. – ma che gli addebiti contestati al direttore generale fossero, invece, riconducibili alla violazione degli obblighi contrattuali contenuti nel contratto di lavoro.

Sulla base di tale rilievo la sezione specializzata riteneva la competenza del giudice del lavoro confermata dalla Suprema Corte uniformandosi così al costante indirizzo della giurisprudenza.

La Cassazione coglie, quindi, l’occasione per ripercorrere la giurisprudenza in materia partendo da due pronunce che avevano affermato chiaramente il principio secondo cui, in tema di azione di responsabilità nei confronti del direttore generale di società di capitali, la disciplina prevista per la responsabilità degli amministratori si applica, ai sensi dell’art. 2396 c.c., esclusivamente se la posizione apicale di tale soggetto all’interno della società sia desumibile da una nomina formale da parte dell’assemblea o anche del consiglio di amministrazione in base ad apposita previsione statutaria.

Ed invero, atteso che il legislatore non ha fornito una nozione intrinseca di direttore generale collegata alle mansioni svolte, la Suprema Corte non ritiene configurabile alcuna interpretazione estensiva od analogica che consenta di allargare lo speciale ed eccezionale regime di responsabilità di tale figura ad altre ipotesi, fatto salvo il caso in cui ricorrano gli estremi e i presupposti dell’amministratore di fatto (Cass. Civ. 5 dicembre 2008, n. 28819, Cass. Civ. 18 novembre 2015, n. 23630).

Sul punto, si riporta anche un’ordinanza successiva alle pronunce richiamate che, proprio in tema di competenza, prende in esame l’ipotesi in cui la responsabilità del direttore generale di una società per azioni sia stata prospettata sotto il profilo delle inadempienze poste in essere nello svolgimento delle proprie mansioni, ossia nell’ambito del rapporto di lavoro. Orbene, in questo caso la Cassazione ha ritenuto che l’azione, dovendo essere condotta una valutazione alla stregua della domanda e dei fatti costitutivi come in essa allegati, non deve essere proposta alla sezione specializzata del Tribunale delle imprese, ma al giudice del lavoro, in ragione dell’espressa clausola di salvezza stabilita dall’art. 2396 c.c. (Cass. Civ. 3 luglio 2018, n. 17309).

Si tratta, quindi, di verificare se una controversia, in base alla prospettazione contenuta nella domanda di parte attrice, rientri o meno tra quelle previste dall’art. 3, comma 2, D.Lgs. 27 giugno 2003, n. 168, che disciplina la competenza del Tribunale delle imprese.

Ed invero, come da costante indirizzo della giurisprudenza di legittimità, “la verifica della competenza va attuata alla stregua delle allegazioni contenute nella domanda e non anche delle contestazioni mosse alla pretesa dalla parte convenuta, tenendo altresì conto che, qualora uno stesso fatto possa essere qualificato in relazione a diversi titoli giuridici, spetta alla scelta discrezionale della parte attrice la individuazione dell’azione da esperire in giudizio, essendo consentito al giudice di riqualificare la domanda stessa soltanto nel caso in cui questa presenti elementi di ambiguità non altrimenti risolvibili” (Cass. Civ. 29 agosto 2017, n. 20508; Cass. Civ. 17 maggio 2007, n. 11415; Cass. Civ. 26 marzo 2014, n. 7182).

Sul punto, la Cassazione ripercorre il contrasto esistente tra i due orientamenti della giurisprudenza di legittimità in relazione al rapporto tra società e amministratore.

In particolare, secondo l’indirizzo maggioritario “la controversia nella quale l’amministratore di una società di capitali, o ente assimilato, chieda la condanna della società stessa al pagamento di una somma dovuta per effetto dell’attività di esercizio delle funzioni gestorie, è soggetta al rito del lavoro ai sensi dell’art. 409 c.p.c., n. 3, atteso che, se verso i terzi estranei all’organizzazione societaria è configurabile, tra amministrazione e società, un rapporto di immedesimazione organica, all’interno dell’organizzazione ben sono configurabili rapporti di credito nascenti da un’attività come quella resa dall’amministratore, continua, coordinata e prevalentemente personale, non rilevando in contrario il contenuto parzialmente imprenditoriale dell’attività gestoria e l’eventuale mancanza di una posizione di debolezza contrattuale dell’amministratore nei confronti della società” (Cass. Civ., SS.UU., 14 dicembre 1994, n. 10680; Cass. Civ. 27 maggio 1995, n. 5976; Cass. Civ. 17 giugno 1995, n. 6901; Cass. Civ. 14 febbraio 2000, n. 1662; Cass. Civ. 29 marzo 2001, n. 4662; Cass. Civ. 20 febbraio 2009, n. 4261; Cass. Civ. 2 luglio 2013, n. 16494; Cass. Civ. 9 dicembre 2015, n. 24862).

Una diversa interpretazione, minoritaria nella giurisprudenza di legittimità, invece, sostiene che il rapporto intercorrente tra la società e l’amministratore, al quale è affidata la gestione sociale, sia di immedesimazione organica e che non possa essere qualificato come rapporto di lavoro subordinato o di collaborazione continuata e coordinata, dovendo invece essere ascritto all’area del lavoro professionale autonomo (Cass. Civ. 1° aprile 2009, n. 7961; Cass. Civ. 26 febbraio 2002, n. 2861).

Questo orientamento ha il limite di non affrontare ex professo il tema della competenza, ma di “accontentarsi” di fa derivare da tale affermazione la conclusione che il disposto dell’art. 36 Cost., comma 1, relativo al diritto ad una retribuzione proporzionata e sufficiente, pur costituendo norma immediatamente precettiva e non programmatica, non sia applicabile al predetto rapporto, per cui è legittima la previsione statutaria di gratuità delle relative funzioni.

Il contrasto veniva, quindi, composto dalle Sezioni Unite nel senso che “l’amministratore unico o il consigliere di amministrazione di una S.p.a. sono legati alla stessa da un rapporto di tipo societario che, in considerazione dell’immedesimazione organica tra persona fisica ed ente e dell’assenza del requisito della coordinazione, non è compreso in quelli previsti dall’art. 409 c.p.c., n. 3”. (Cass. Civ., SS.UU., 20 gennaio 2017, n. 1545).

Questa pronuncia ha anche il pregio di precisare come non possa escludersi che si instauri tra la società e la persona fisica che la rappresenti e la gestisca un autonomo, parallelo e diverso rapporto che possa assumere, sulla base dell’accertamento condotto in concreto dal giudice di merito, le caratteristiche di un rapporto di lavoro subordinato, parasubordinato o d’opera (Cass. Civ. 7 marzo 1996, n. 1796).

Tale principio di diritto viene, infatti, applicato dalla Corte di Cassazione nel caso concreto nel quale, come anticipato, con la domanda introduttiva, si lamentavano inadempimenti inerenti proprio al rapporto di lavoro a tempo indeterminato e non afferenti, invece, al rapporto di immedesimazione organica che determinerebbe l’attrazione della competenza al tribunale delle imprese ai sensi dell’art. 3, comma 2, lett. a), D.Lgs. 27 giugno 2003, n. 168 (Cass. Civ. 3 luglio 2018, n. 17309).

In conclusione, la Corte ha riconosciuto la correttezza della scelta della sezione specializzata di attribuire rilievo decisivo al fatto che la nomina, da parte del consiglio di amministrazione, del direttore generale non sarebbe avvenuta in base a specifica previsione statutaria, con la conseguenza che l’azione concretamente azionata non sarebbe stata qualificabile come azione di responsabilità ai sensi dell’art. 2396 c.c.

Si è poi confermato come in ordine all’azione di responsabilità nei confronti del direttore generale di società di capitali “la disciplina prevista per la responsabilità degli amministratori si applica, ai sensi dell’art. 2396 cod. civ., esclusivamente se la posizione apicale di tale soggetto all’interno della società sia desumibile da una nomina formale da parte dell’assemblea o anche del consiglio di amministrazione, in base ad apposita previsione statutaria”.

Infine, in merito alla competenza ha affermato che “allorché la responsabilità del direttore generale di una società per azioni sia stata prospettata sotto il profilo delle inadempienze poste in essere nello svolgimento delle sue mansioni, ossia nell’ambito del rapporto di lavoro, l’azione, dovendosi effettuare una valutazione alla stregua della domanda e dei fatti costitutivi come in essa allegati, non va proposta alla sezione specializzata del Tribunale delle imprese, di cui al d.lgs. n. 168 del 2003, ma al giudice del lavoro, attesa l’espressa salvezza stabilita dall’art. 2396 c.c.”.

L’azione individuale del socio e del terzo ex art. 2395 c.c.

Nell’ultima pronuncia presa in esam la Corte di Cassazione (Cass. Civ. 12 febbraio 2020, n. 3452) affronta il tema dell’azione individuale del socio e del terzo ex art. 2359 c.c.

Tale decisione ha offerto alla Suprema Corte l’occasione per ribadire il perimetro applicativo dell’azione di responsabilità ex art. 2395 c.c. che rappresenta uno strumento di tutela in favore dei soci o dei terzi che subiscano un danno in conseguenza degli illeciti consumati nell’esercizio dell’azione amministrativa.

La differenza rispetto all’azione sociale e a quella dei creditori si coglie nell’aspetto relativo all’incidenza diretta del danno sul patrimonio del socio o del terzo.

In particolare, la risarcibilità del danno arrecato al patrimonio del socio o del terzo presuppone un fatto illecito degli amministratori che consiste in una violazione dolosa o colposa dei doveri che discendono dal mandato gestorio.

Secondo l’opinione maggioritaria, in ragione dell’assenza di un vincolo contrattuale tra amministratore e soci e terzi che esercitino l’azione, la responsabilità in parola ha natura extracontrattuale (Cass. Civ. 10 aprile 2014, n. 8458; Cass. Civ. 23 giugno 2010, n. 15220; Trib. Milano 13 maggio 2011).

Nel caso in esame la Suprema Corte ripercorre l’orientamento maggioritario della giurisprudenza di legittimità secondo cui, a fronte dell’inadempimento contrattuale di una società di capitali, la responsabilità risarcitoria degli amministratori nei confronti dell’altro contraente non deriva automaticamente da tale loro qualità, ma richiede, ai sensi dell’art. 2395 c.c., la prova di una condotta dolosa o colposa degli amministratori medesimi, del danno e del nesso causale tra questa e il danno patito dal terzo contraente (Cass. Civ. 8 settembre 2015, n. 17794; Cass. Civ. 25 ottobre 2016, n. 21517). In particolare, secondo la giurisprudenza di legittimità (Cass. Civ. 22 marzo 2010, n. 6870) in tema di azioni nei confronti dell’amministratore di società, a norma dell’art. 2395 c.c., il terzo è legittimato, anche dopo il fallimento della società ad esercitare l’azione – di natura aquiliana – per ottenere il risarcimento dei danni subiti nella propria sfera individuale, in conseguenza di atti dolosi o colposi compiuti dall’amministratore, solo se questi siano conseguenza immediata e diretta del comportamento denunciato e non il mero riflesso del pregiudizio che abbia colpito l’ente, ovvero il ceto creditorio per effetto della cattiva gestione. In caso contrario sarà, invece, esercitabile la diversa azione – di natura contrattuale – prevista dall’art. 2394 c.c., esperibile, in caso di fallimento della società, dal curatore, ai sensi dell’art. 146 l.fall. (Cass. Civ. 10 aprile 2014, n. 8458).

Sul punto, si segnala anche quell’indirizzo giurisprudenziale secondo cui l’inadempimento contrattuale di una società di capitali non implica, di per sé, la responsabilità per danni dell’amministratore nei confronti dell’altro contraente (Cass. Civ. 5 agosto 2008, n. 21130).

Tale automaticità viene esclusa perché il danno direttamente arrecato ai terzi ha una propria autonoma genesi, non derivando dal danno arrecato al patrimonio sociale (Cass. Civ. 1° aprile 1994, n. 3216).

In particolare, la responsabilità risarcitoria, di cui all’azione ex art. 2395 c.c., richiede una condotta illecita connotata da dolo o colpa che trascenda il mero inadempimento contrattuale, seppure possa essere ad esso connessa.

Pertanto, la Corte di Cassazione conclude affermando come il danno diretto lamentato per l’esercizio dell’azione prevista dall’art. 2395 c.c., debba essere limitato all’effetto immediato sul patrimonio del terzo dell’atto compiuto dall’amministratore, da intendersi nel senso che l’azione denunciata debba aver avuto una ripercussione diretta sulla sua sfera individuale (Cass. Civ. 28 marzo 1996, n. 2850).

*avvocato

Tags:

Leave a Comment

Your email address will not be published. Required fields are marked *