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Diritto del lavoro ai tempi del Covid Riforma degli ammortizzatori sociali, rapporti di lavoro, vincoli in uscita

da sinistra a destra: Giorgio Molteni, Paola Lonigro, Angelo Di Gioia e Claudio Ponari

Il 31 marzo finirà lo stato di emergenza, ma l’esperienza maturata in vigenza della normativa emergenziale sembra destinata ad influenzare il diritto del lavoro anche oltre tale data.  Ed allora, cosa cambierà? E cosa resterà, invece, di quell’esperienza? Di questi, e altri aspetti, si è parlato nel meeting online che si è tenuto il 15 febbraio scorso, organizzato dallo studio Trifirò & Partners avvocati e dallo studio di comunicazione The Skill. Vi hanno partecipato gli avvocati Giorgio Molteni, Paola Lonigro, Angelo Di Gioia e Claudio Ponari. Tra i temi analizzati, la riforma degli ammortizzatori sociali, con la generalizzazione della tutela dei lavoratori, le ultime misure per fronteggiare l’emergenza Covid e le novità introdotte nella Finanziaria in merito ai vincoli in uscita per le aziende che chiudono o delocalizzano.

“Recentemente sono state emanate due disposizioni di legge che contengono norme specifiche con impatto sul diritto del lavoro – ha spiegato l’Avv. Giorgio Molteni –, si tratta della legge di bilancio 2022 e del decreto-legge numero 1 del 2022. Quest’ultimo si inserisce nella normativa emergenziale generata dalla pandemia ed è un provvedimento di carattere temporaneo, mentre le disposizioni della legge di bilancio in materia di ammortizzatori sociali e di delocalizzazione hanno natura strutturale”. Molteni ha poi sottolineato che “un altro elemento con cui ci rapporteremo per molto tempo è lo smart working, di cui si è fatto largo utilizzo durante la pandemia”. Un rimedio per le limitazioni della circolazione del virus “che rimarrà anche dopo la cessazione dello stato di emergenza”, ha infatti evidenziato Molteni, e che “molte aziende continueranno a utilizzare”.

Più nello specifico, sul tema degli ammortizzatori sociali  è intervenuta l’avvocata Lonigro: “La riforma degli ammortizzatori sociali ha l’obiettivo di estendere gli strumenti di sostegno del reddito a tutti i lavoratori subordinati, esclusi i dirigenti, ma ha anche una finalità implicita che è quella di scoraggiare i datori di lavoro a procedere a licenziamenti collettivi, che, dovendo rappresentare l’extrema ratio (come ribadito in più occasioni anche dalla Cassazione), potrebbero essere contestati qualora il datore di lavoro non abbia tentato prioritariamente di ridurre l’esubero di personale utilizzando gli ammortizzatori sociali previsti dall’ordinamento post riforma. La stessa normativa che disciplina la procedura di licenziamento collettivo, infatti, impone al datore di lavoro di spiegare gli eventuali motivi tecnici, organizzativi e produttivi, per i quali ritiene di non poter adottare misure idonee a porre rimedio alla situazione di eccedenza ed evitare, in tutto o in parte, il licenziamento collettivo. In tale contesto, quindi, sarebbe difficoltoso sostenere di non avere avuto altra scelta se non quella di procedere al licenziamento qualora non si sia fatto preventivo ricorso agli ammortizzatori sociali”. Lonigro ha poi specificato che “la procedura per accedere agli ammortizzatori sociali prevede anche il coinvolgimento del sindacato e nell’ambito del confronto sindacale potrebbe essere stipulato dalle imprese che hanno attivato un intervento straordinario di integrazione salariale per riorganizzazione o crisi aziendale, in cui non sia previsto il completo recupero occupazione, un accordo di ricollocazione per i lavoratori a rischio esubero i quali potranno accedere anticipatamente all’assegno di ricollocazione. L’anticipo dell’assegno di ricollocazione prevede non solo un servizio di assistenza per la ricerca di nuovo lavoro, ma anche benefici fiscali nel caso di stipula di un nuovo contratto di lavoro.

I vantaggi riguardano non solo i lavoratori che accettano altri lavori, ma anche i datori di lavoro che assumono, nel periodo di fruizione dell’assegno di ricollocazione, i dipendenti in questione, spiega Lonigro. Tra le categorie che hanno accesso agli ammortizzatori sociali sono inclusi anche i lavoratori a domicilio e gli apprendisti. L’altra novità è il requisito di accesso agli ammortizzatori che riguarda l’anzianità del lavoratore: ante riforma si prevedeva l’accesso agli ammortizzatori ai lavoratori che avessero un’anzianità di almeno 90 giorni di effettivo lavoro, questa soglia è stata ora abbassata a 30 giorni. Dentro a questi giorni lavorati vanno computate anche le assenze per ferie o infortunio o maternità”. Ma quali caratteristiche devono avere le aziende che accedono alla Cigs? “Oggi possono accedervi tutte le aziende che hanno occupato mediamente, nel semestre precedente, più di 15 dipendenti e non siano coperte da fondi bilaterali di settore o dal fondo di integrazione salariale – conclude l’Avv. Lonigro –.  Ci sono delle norme speciali per tre categorie che riguardano le imprese che lavorano nel settore aereo e nella gestione degli aeroporti, i partiti politici e le loro articolazioni territoriali, e le aziende editoriali; queste tre categorie, infatti, hanno accesso alla cassa integrazione guadagni straordinaria indipendentemente dalla loro soglia dimensionale”.

Altro elemento che ha un peso specifico rilevante nella gestione dell’occupazione oggi è il controllo del green pass e del green pass rafforzato nel contesto lavorativo. “Sappiamo che dal 15 ottobre 2021 è obbligatoria per tutti i dipendenti l’esibizione del green pass per accedere ai luoghi di lavoro – spiega l’avvocato Angelo Di Gioia – ma a partire dal 15 febbraio 2022 è entrata in vigore una previsione maggiormente restrittiva introdotta dal decreto-legge n. 1 del 2022 per i lavoratori ultra 50enni, in conseguenza dell’obbligo vaccinale disposto in via generalizzata per tutti i cittadini al compimento del 50esimo anno di età. In particolare, fino al 15 giugno 2022, tutti i lavoratori ultra 50enni potranno accedere ai luoghi di lavoro solo se in possesso del “super green pass” o green pass rafforzato, che si ottiene solo a seguito di a) completamento del ciclo vaccinale primario o della somministrazione della relativa dose di richiamo; b) avvenuta guarigione da Covid-19, con cessazione dell’isolamento prescritto dopo l’infezione da SARS-CoV-2; c) avvenuta guarigione dopo la somministrazione della prima dose di vaccino o al termine del ciclo vaccinale primario o della somministrazione della relativa dose di richiamo. L’unica eccezione a tale obbligo riguarda i soggetti per i quali la vaccinazione venga omessa o differita in presenza di un accertato pericolo per la salute certificato dal medico di medicina generale o dal medico vaccinatore. Per i lavoratori esentati dall’obbligo vaccinale, però, il legislatore ha previsto la possibilità di assegnazione ad altre mansioni senza conseguenze sul trattamento retributivo, ma, osserva l’avvocato Di Gioia: “Non è così semplice interpretare questa norma, perché la possibilità di modifica della mansione è già prevista in generale dall’art. 2103 c.c., motivo per cui la disposizione dovrebbe essere intesa nel senso di consentire anche l’assegnazione a mansioni inferiori, ove necessario per tutelare i soggetti in questione, e ciò potrebbe essere oggetto di contestazione da parte del lavoratore”. Altro punto su cui è necessario entrare nello specifico, a detta dell’avvocato Di Gioia, è l’utilizzo dello smart working. “L’impiego di questo strumento per evitare il contagio in azienda è incentivato e fortemente raccomandato per tutta la durata dello stato di emergenza, ma le uniche prescrizioni che riconoscono un diritto allo smart working riguardano solo i lavoratori fragili per le patologie indicate da un apposito decreto ministeriale adottato il 3 febbraio 2022 e solo fino al 28 febbraio, ma questo non significa che il datore di lavoro non possa considerare legittime le richieste provenienti anche da altri dipendenti, come nel caso di lavoratori genitori di figli con grave disabilità o di figli minori di anni 14 che si trovino in quarantena o in DAD, per i quali, allo stato, la normativa prevede unicamente il diritto a fruire di congedi parentali. Del resto – spiega ancora il legale – la normativa di carattere generale in materia di lavoro agile contenuta nella legge 81 del 2017 prevede già l’obbligo di riconoscere priorità alle richieste delle madri nei tre anni successivi al rientro dopo il periodo di astensione obbligatoria e ai genitori di figli in condizioni di disabilità. Per la stessa ragione bisognerà vagliare con attenzione eventuali richieste motivate da esigenze assimilabili a queste ultime, ferma restando la valutazione delle esigenze aziendali, che resta il criterio fondamentale per il datore di lavoro”.

Tema dolente, soprattutto negli ultimi mesi, è quello della chiusura delle aziende che decidono di delocalizzare la produzione. “Il nostro ordinamento sta provando da tempo a contrastare questo fenomeno – spiega l’avvocato Claudio Ponari. La legge 30 Dicembre 2021, n. 234 (Legge Finanziaria) ha ulteriormente disciplinato la materia prevedendo nuovi obblighi di informazione e consultazione che si applicano ai datori di lavoro che occupino mediamente 250 dipendenti e che intendano effettuare 50 licenziamenti in correlazione con la chiusura di una sede, stabilimento, filiale ufficio o reparto autonomo situato nel territorio nazionale. La norma si pone in continuità con   il D.Lgs. 6 febbraio 2007 n. 25 che costituisce la normativa di riferimento in materia di obblighi di informazione e consultazione dei lavoratori. L’azienda che intende chiudere deve comunicare preventivamente le ragioni economico-finanziarie, tecniche ed organizzative alla base della chiusura alle rsa o rsu, al Ministero del lavoro, nonché alle sedi territoriali dei sindacati di categoria comparativamente più rappresentativi sul piano nazionale, alla Regione/Regioni di riferimento, all’agenzia nazionale delle politiche attive per il lavoro (Anpal), infine anche al Mise, che funge da “advisor”, cercando alternative alla chiusura e individuando alternative produttive”. La procedura prevede che il datore di lavoro elabori, altresì, un piano per limitare le ricadute occupazionali ed economiche derivanti dalla chiusura, che deve seguire la comunicazione di apertura ed è funzionale al successivo confronto con i sindacati e con gli altri attori coinvolti per la ricerca di un accordo. Il piano deve indicare: le azioni programmate per la salvaguardia dei livelli occupazionali, quali il ricorso agli ammortizzatori sociali e/o la ricollocazione presso altro datore di lavoro; le azioni finalizzate alla rioccupazione o all’autoimpiego; le prospettive  di cessione dell’azienda o di rami con finalità di continuazione dell’attività; gli eventuali progetti di riconversione del sito produttivo, il tutto corredato da una puntuale specificazione dei tempi e delle modalità di attuazione delle azioni previste nel piano nella prospettiva di ricercare un accordo che salvaguardi il tessuto occupazionale e produttivo.  “La legge non chiarisce se questa procedura si applichi anche all’ipotesi di cessazione di un appalto – aggiunge Ponari –, in teoria non dovrebbe, poiché questa procedura precede quella di licenziamento collettivo che, di regola, non si applica alla cessazione di appalto quando vi sia il passaggio diretto della forza lavoro impiegata nell’appalto ad un diverso appaltatore in virtù della presenza di una clausola sociale, ma la Cassazione ha lasciato aperta una porta per le ipotesi in cui il passaggio delle maestranze non avvenga a parità di condizioni economiche e normative); è quindi auspicabile un intervento risolutivo del Ministero del Lavoro”. 

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