Le condotte illecite lesive del c.d. “made in Italy” hanno ad oggetto la falsificazione dei dati relativi all’origine e/o alla provenienza dei beni da intendersi, secondo i più recenti orientamenti della lavorazione riferibili rispettivamente al “luogo geografico di produzione” e al “luogo di lavorazione del prodotto”.
L’origine e la provenienza dei beni, naturalmente, sono strettamente legati alla qualità dei prodotti, nel senso che, da un punto di vista patologico, risulta senz’altro appetibile abbinare indebitamente l’etichetta “italiana” a merci di origine/provenienza diversa, stante l’insito valore riconosciuto alle filiere produttive nazionali.
Giova precisare che la delicata materia della tutela delle indicazioni di origine o qualità delle merci ha assunto un crescente rilievo a livello nazionale ed europeo, anche in ragione della massiccia diffusione di forme di delocalizzazione imprenditoriale che hanno comportato il trasferimento di parte o talvolta, di interi cicli produttivi in paesi terzi.
L’usurpazione delle indicazioni di origine o provenienza può interessare qualunque genere di prodotto, come la categoria del lusso: pensiamo ad esempio alle calzature delle “nostre famose” case di moda come Prada, Gucci, Valentino, Ferragamo, ecc.
La recentissima sentenza della Terza Sezione Penale della Corte di Cassazione del 3 maggio 2022, depositata il 21 giugno u.s. ha il pregio di mettere a fuoco ancora una volta l’importanza della rilevanza penale del concetto di “made in Italy” sui prodotti e merci non originari dall’Italia ai sensi della normativa europea sull’origine.
La sentenza fa buon governo dei richiamati principi di precedenti pronunce che hanno integrato le condotte punibili sulla base di:
- stampigliatura “made in Italy”;
- utilizzo di etichetta del tipo “100% made in Italy”, “100% Italia”, “tutto italiano” o “full made in Italy”;
- oppure mediante l’uso ingannevole del marchio aziendale.
Antonio Bana – Avvocato
Studio Legale Bana